Geraldina Piazza

Mamma

Questa è una delle poche foto che ho con la mia mamma. E nella sua faccia al mio contatto si capisce molto bene il carattere che aveva!

Non farò, giusto oggi, un racconto zuccheroso del meraviglioso rapporto che ho avuto con mamma perché io ho recuperato quel rapporto solo da adulta…

Avevo tredici anni quando papà si ammalò con un ictus devastante e la sua vita deviò verso di lui.

Luigi Biondi, neuropsichiatra illuminato, vecchio amico di famiglia, per cui lavoravo, diceva sempre: “Una donna può saper ricoprire vari ruoli, può fare bene la moglie e la madre, solo la moglie o solo la madre. Tua madre è una bravissima moglie e una madre un po’ meno brava”.

Devo a mamma la sopravvivenza di papà per nove anni di malattia in cui lei non mollò un attimo, con una forza e una caparbietà che non le avrei mai riconosciuto, ma con me proprio non si applicò mai. 

Eppure non ero una ragazzina ribelle o recalcitrante. Ma lei non c’era con la scuola, con le prime cotte, con il primo ciclo, con il primo reggiseno, che fu comprato perché la professoressa di educazione fisica la mandò a chiamare; mi lasciò compiere il più grosso errore della mia vita facendomi sposare un essere inutile e inadeguato, semplicemente restando a guardare…

Avevo girato il mio sguardo verso zia Na, sorella di mamma, sposata prima e vedova poi, senza figli. Molto disponibile all’ascolto, al consiglio, alla considerazione. Cose che in mamma provocava grande gelosia. Ma che non riusciva a portarla a una virata decisa verso noi figli, anche rimasta senza papà. Un giorno la beccai, sola a casa, che, in un attimo di confidenza, mi disse: “Io aspetto solo di morire, non ho più scopo nella vita”. E aveva tre figli e tre nipoti…

La sua educazione la portava a una rigida anaffettività. Nella sua famiglia non si usavano le effusioni. Quand’ero ragazzina la sfottevo avvicinandomi e minacciandola: “O mi dai mille lire o ti bacio”.

Finto abbraccio ironico!

Se l’abbracciavo la mettevo a disagio, però mi ero abituata a questo suo modo di fare, tant’è che, quando è stata male lei, minata da un brutto enfisema dovuto al fumo che non era riuscita a domare fino a pochi anni prima, e comunque troppo tardi per non aver fatto danni irreparabili, l’ho accudita, come una madre con una figlia. L’ho ospitata a casa mia mentre aspettavo Carlo e, dopo il parto, la notte mi alzavo per allattare e per controllare anche lei che dormiva nel divano letto dello studio.

Quando è mancata, un anno e mezzo dopo, non ho avuto alcun rimorso. Avevo fatto tutto quello che era in mio potere per assisterla, per renderle gli ultimi mesi sereni e senza dolori. 

Ora mi manca. Era una donna intelligente, con un grande senso dell’umorismo, prigioniera di una educazione rigida che non concedeva niente alle proprie emozioni. È stata una moglie meravigliosa, un po’ meno come madre. Ma posso solo dire, a chi vive una situazione simile che, se non fossi stata splendida, negli ultimi anni della sua vita, non me lo sarei mai perdonato. Non è necessario ricevere per dare. Fra madre e figlia non c’è una bilancia. E qualunque cosa si faccia, da una parte e dall’altra, arricchisce il cuore. Non lasciatela andare in malo modo, ché i rimpianti sono molto più difficili da digerire dei rancori.

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