Geraldina Piazza

Camillo e Ninfea

Camillo e Ninfea

Camillo era un rospo giovane e credeva alle favole. Abitava nell’ultimo stagno a destra dopo la radura. Non era male la sua casa, forse solo un po’ umida, ma bastava farci l’abitudine. Non aveva grossi problemi e la sua vita era tranquilla, è proprio il caso di dirlo, come l’acqua stagnante. Ogni tanto sentiva solo il bisogno di un po’ di compagnia; aveva tanti amici nello stagno, ma lui voleva qualcosa di diverso, di più … come dire … intimo! Mangiava i suoi piccoli insetti, saltava da una foglia a un sasso e aveva un bel daffare a nuotare in lungo e in largo nel suo stagno, naturalmente a rana. Stando sott’acqua aveva un vantaggio: vedeva tutto più bello, un po’ sfocato e poteva immaginare quello che voleva, anche cose bellissime. E fu in uno di questi momenti che vide una sagoma prendere corpo proprio sopra di lui. Per un istante, ma solo un istante, ebbe paura. Quell’ombra calata improvvisamente a nascondergli il sole lo aveva spaventato, ma poi si rassicurò. Lì dov’era non aveva niente da temere, così, incuriosito, sporse la testa fuori dall’acqua per meglio vedere chi fosse quell’ombra che, a occhio e croce, sembrava una donna; fu subito soddisfatto perché da lontano una voce la chiamò: “Ninfeaaa…”. Che bel nome, pensò Camillo, e che sguardo dolce aveva quella donna. Ma c’era qualcosa di irresistibile in lei che lo attraeva; forse gli occhi neri e profondi, o quelle mani aggraziate con le dite lunghe lunghe che giocavano a smuovere l’acqua; insomma, neanche lui si rese conto di come successe, ma, spiccato un bel salto, la baciò sonoramente su una guancia e Ninfea, invece di urlare disgustata, cominciò a ridere, ma a ridere, e a ridere così forte, ma così forte che senza accorgersene si trasformò in una rana, e continuando a ridere, pardon, a gracchiare, con lui nello stagno si tuffò.

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