Geraldina Piazza

I miei fantasmi…


So di non essere popolare e ne parlo molto poco. Ma io sento i morti.

Mi capita da quando ero una ragazzina e spesso avevo delle premonizioni. 

Anche l’ictus di papà avevo già visto e non fu una bella sensazione.

In genere mi accade soprattutto con le case. So chi ci ha abitato e com’era la vita fra quelle stanze, e se è accaduto qualcosa di brutto, di oscuro, in genere scappo a gambe levate.

Sognai l’aereo di Bepi Cajozzo che si schiantava, il terremoto del Belice, e sognavo spesso papà, con cui parlavo della mia vita travagliata!

Questo fin quando non cominciai la mia storia con Paolo che lo rassicurò a tal punto da fargli spiccare il volo verso lidi più paradisiaci. Mi disse “Io non servo più, ora che sono tranquillo, me ne posso andare”. Mi svegliai in lacrime, spaventando il povero Paolo che dormiva accanto a me e che ai fantasmi non aveva mai creduto. Però, da quel momento, non lo sentii più.

Eppure ci avevo parlato, più volte, tramite una dolce signora, già molto anziana, conosciuta in città perché era una che comunicava con le persone che non erano più su questa terra.

Si chiamava Alessandrina Samonà, ed era lei stessa la reincarnazione di una sorellina che prima di morire accarezzò la pancia della sua mamma dicendole: ”Non preoccuparti, io sto andando via, ma già rivivo in te”.      

L’incontro fu particolare perché chiesi a mia madre se potevamo andarla a trovare. In città tutti sapevano delle sue capacità e io volevo ”parlare” con papà. Mamma non la conosceva personalmente e, appena si parlò dell’argomento, la sua amica del cuore, Annamaria Biondo, che aveva perso un fratello in un incidente di moto, le chiese se poteva unirsi a noi con la sua mamma. Questo fratello aveva una situazione brutta perché lasciava una compagna incinta tossica. E la famiglia di Annamaria si arrabattava per cercare di preservare questa ragazza con una gravidanza complicata.

E come fu e come non fu partì questa spedizione. Sapevamo dove abitava e, senza vergogna, citofonammo a casa sua. Ci aprì senza problemi e ci fece accomodare in un salotto modesto. Aveva i capelli appena pettinati dal parrucchiere con quel cachet violetto che facevano le nonne di un tempo per levare il giallo dai capelli bianchi. Assomigliava alla Levi Montalcini.

Io avevo portato una foto di papà in una busta chiusa e gliela porsi. Lei chiese subito chi voleva cominciare e prese un grande blocco bianco con una penna.

Annamaria, impaziente, si sporse in avanti con la sua mamma e lei cominciò a parlare, scrivendo in modo disordinato e con grandi lettere, senza guardare il foglio, ciò che diceva.

“Ero biondo, con dei grandi occhi azzurri e sono finito con un colpo” (papà morì di ictus). 

papà

Annamaria la interruppe e le disse subito: “Non sta parlando di mio fratello, ma del papà di Geraldina”. Allora lei si scosse, come fosse stata in trance, e mi guardò: “La ragazza deve uscire dalla stanza perché la sua influenza è troppo forte”.

Così mi accompagnarono nella saletta accanto ad aspettare.

Mamma restò con le due amiche che, a un certo punto scoppiarono a piangere perché Alessandrina rivelò loro molti particolari della famiglia, compreso un documento di cui loro sconoscevano l’esistenza, nascosto in un secretaire.

Mamma allora, vedendo l’emotività che aveva scatenato in Annamaria e nella sua mamma, si preoccupò per me e venne a dirmi che se volevo potevamo andare via subito, ma io la rassicurai. Se mi avesse parlato di papà potevo solo essergliene grata. E così fu. 

Tant’è che esordii con un soprannome che mi dava papà: Pulcina. 

Potevo mai essere preoccupata? Tenendo la foto rivelò che lo aveva già incontrato, e mamma mi confessò che lui, con degli amici, in modo un po’ goliardico, erano andati a cercarla per avere notizie di un commilitone che non era mai tornato dalla guerra, e che lei gli rivelò essere morto.

Raccontò che era insieme alla zia Gabriella, sorella di mamma morta nell’incidente aereo di Montagnalonga tanti anni prima, e aggiunse che la zia era con Annamaria. Questa seconda donna aveva incautamente preso il biglietto di mia cugina che, all’ultimo momento non era più partita, e aveva volato al posto suo. Schiantandosi sulla montagna. Particolare che non sapeva nessuno.

Gabriella Giaconia Zanca

E così proseguendo fra racconti privati della famiglia e nuovi morti che si affacciavano a questa strana finestra temporale creata da Alessandrina, per avere informazioni di vita terrena, si accumulavano i fogli con i suoi scritti (tutti religiosamente conservati). Andai più volte a trovarla. Sapere che papà si preoccupava per me e restava vicino per assistermi mi dava un gran senso di pace.

Fin quando lei non si trasferì in campagna e poi raggiunse la sua sorellina in cielo.

Capita, ogni tanto di avere qualcuno che, da un’altra dimensione, pressantemente, mi chiede di comunicare con chi è rimasto. Mi dà dei messaggi e io mi sento in dovere di trasmetterli. E rischio di passare per pazza quando li riferisco. Ma me ne fotto.

Mamma era morta da qualche mese e mi venne a svegliare, in piena notte, toccandomi una spalla. Aprì gli occhi, la vidi e non riuscii a richiuderli. Carlo, di 18 mesi, dormiva nella sua stanza, accanto alla nostra, nel suo lettino. E chiunque abbia un figlio sa che, a quel punto, una volta sveglia, ti alzi per andare a controllarlo. Soffriva di una fastidiosa forma di broncospasmo e la pediatra mia aveva catechizzato: “Conta i respiri al minuto, altrimenti si deve intervenire subito col Bentelan”. Se non mi fossi alzata, con la sveglia della mia mamma, forse Carlo sarebbe stato uno di quei bambini “morti in culla”.

Vivo con la mia famiglia e due gatti. I gatti sono “esseri magici”. Ogni tanto, quando sono sola in casa, i gatti che dormono acciambellati ai piedi del letto, si svegliano, e, ritti sulle zampe, fissano il vuoto come a seguire con gli occhi qualcosa che vedono solo loro. E io sono certa che ci sia qualcosa di interessante da guardare, purtroppo invisibile a me!

Per qualche anno, in due delle case dove ho abitato, mi hanno fatto compagnia gli “spiritelli”, cioè le anime dei bimbi mai nati o morti molto piccoli. Sono innocue, dispettose e monelle. Si manifestano in molti modi, non paurosi: accendono o spengono le luci a loro piacimento, aprono il rubinetto del lavandino, ti richiudono il libro sul quale stavi studiando e che avevi lasciato aperto la sera prima. Nella casa col giardino, in cui ho abitato, ogni tanto bussavano alla porta. Ma nessuna sensazione sgradevole mi ha mai assalito, altrimenti avrei traslocato nella notte!

Potrei raccontare cento episodi e, può essere che un giorno io lo faccia.

Spero solo che questo non vi induca a trattarmi con diffidenza. Io non sono un fantasma e coloro che ci rimangono accanto dopo la loro morte in genere lo fanno solo per proteggerci. 

Lo dico sempre, agli amici che hanno perso una persona a loro molto cara.

Aguzza i sensi, certamente sarà accanto a te, in un‘altra forma, in un altro modo, ma vicino a te, devi solo trovarlo…

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