Geraldina Piazza

Controcorrente

Anche Palermo ha avuto il suo bel “salotto letterario”, fatto da artisti, gente colta, buona borghesia, persone di passaggio e amici vari. A quest’ultima categoria appartenevano mio padre e mia madre che lo frequentavano. Nacque in un mezzanino di via Catania, dove Vivi Caruso, giovane moglie separata del pittore Bruno, aveva creato una sua galleria, molto intima, con divani comodi e, come si usava allora, una buona bottiglia di whisky per gli ospiti.

Ospiti che arrivavano alla spicciolata nel tardo pomeriggio, dopo le varie occupazioni lavorative: c’era Renato Guttuso quando era a Palermo, Leonardo Sciascia, quasi ogni pomeriggio, poi ci fu il periodo di Rosa Balistreri, cantante folk meravigliosa, di umilissime origini, ma con una tale carica di simpatia che la ricordo, fotografata da papà, mentre canta accompagnandosi con la chitarra, con Guttuso, e Sciascia, in mezzo, avvolto in una nuvola di fumo, che li guarda ridendo. C’erano gli zii Terranova, e c’erano anche i miei.

Ora si direbbe che passavano le ore cazzeggiando, ai tempi, invece si discuteva di mille argomenti, dalla vita alla politica, dalla città che si andava degradando in un periodo di Ciancimino e Lima al potere.

Poi Vivi Caruso e la sua “La Tavolozza” traslocarono, in una sede più bella e più importante, in via Libertà ad angolo con via Manin. Un bellissimo piano rialzato in un palazzo d’epoca su via Libertà. Era cambiato il luogo ma le persone e lo spirito no. Fu lì che papà si innamorò di un quadro di Renato Guttuso che rappresentava una donna in piedi, di spalle, con una testa di capelli mossi, a medusa, il viso che si intravedeva appena e un orribile sedere a fiasco pieno di pieghe…Va da sé che mamma lo odiò subito, ma dopo una breve trattativa con il pittore, arrivò a casa nostra.

Ha troneggiato nel salotto fin quando entrambi i miei genitori non ci hanno lasciato e abbiamo smontato la casa. E’ toccato a mio fratello Massimo, che se ne era innamorato, mentre anche a me non era piaciuto mai.

Della signora Marzotto, finora rimasta una mamma, meravigliosa e bravissima, ma nell’ombra, non se ne parlava, se non per le mondanità a Milano e a Cortina.

Poi morì la moglie di Renato Guttuso, Mimise, e lui si ammalò, di un tumore rapido e devastante, e come tutti i narcisisti egocentrici, non volle più farsi vedere da nessuno, se non da chi lo aveva accudito per tanti anni con affetto tanto da indurlo ad adottarlo per fare in modo che lui, senza eredi, avesse qualcuno di fidato che si prendesse cura dell’immenso patrimonio pittorico rimasto: Fabio Carapezza, figlio del più caro amico di sempre, e che abitava l’appartamento sotto al suo da vent’anni.

Fra le persone interdette alla sua casa c’era quella che, solo allora, si palesò in modo evidente come “AMANTE” e con comunicazioni alla stampa e denunce in tribunale visto che voleva farsi dare dei quadri e delle licenze per degli oggetti che aveva disegnato e che voleva portassero il marchio di Guttuso, Marta Marzotto. Fino a quel momento sposa felice di quel conte che, portandola via dalla risaia e dalla sartina che l’aveva messa in evidenza, facendola sfilare, le aveva cambiato il suo orribile cognome da Vacondio a uno certamente più blasonato.

E fu allora che il Conte Marzotto, riacciuffate finalmente le sue palle a due mani, le chiese il divorzio, davanti a un tradimento così sbandierato.

Si separarono ma la storia esplose malamente fra carte bollate e cause in cui a lei rimase solo il piacere di vedere l’intera parete del suo bagno della villa di Porto Rotondo affrescata dal suo vecchio amante.

E fu allora che mia madre, che odiava la contessa, osservò meglio il nudo di donna nel suo salotto e disse: “Ecco perché mi faceva schifo…perché quello è il sedere della Marzotto”!

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