Geraldina Piazza

L’Aquila

GRU:

Apparecchio di sollevamento e trasporto di carichi su brevi distanze, costituito dalla struttura portante, dal complesso degli organi di presa e sollevamento del carico, dal complesso degli organi che operano la traslazione (con moto rettilineo o circolare) del carico.

Questo secondo l’enciclopedia. Ma secondo quello che hanno visto i miei occhi e che ha sentito il mio cuore GRU significa VITA.

Non vedevo L’Aquila da sette anni. C’ero stata nel 2012 ed ero tornata affranta, circondata dalle anime di chi non voleva lasciare la propria terra e i propri affetti. Macerie, calcinacci, divieti e graticci e, soprattutto, l’odiata rete di plastica arancione che circondava tutto e tutti.

Ecco, i miei occhi vedevano tutto attraverso quella trama, come se la burqa la portassi io e non le case, le chiese e interi edifici.

Adesso l’elemento che caratterizza tutti i quartieri, le strade, i giardini e i palazzi è proprio la GRU, che svetta sovrana. Ce ne saranno a centinaia, forse di più.

E poi tante case, antiche, moderne, rifatte, uguali a quelle che c’erano. E Claudia mi dice: “Non lo vedi? Prima da quella finestra vedevo l’albero proprio al centro. Ora è spostato più in là. La nostra palazzina è stata ricostruita a qualche metro di distanza da dove era prima perché adesso abbiamo l’ascensore”. La situazione è surreale. Ma succede anche questo in questa città che tenta di rialzarsi con un carico immane sulla groppa.

E lo scorgi ovunque. “Lo vedi quel negozio? È tornato proprio dov’era prima. Anche le vetrine sembrano sempre le stesse…”

E si tenta faticosamente di riappropriarsi della normalità, della quotidianità, stravolta dal quel terrificante boato di dieci anni fa.

Non potevo e non volevo mancare a questo anniversario. E quando Claudia mi ha invitato non me lo sono fatta dire due volte. Volevo vedere cosa stava succedendo in questa città dimenticata dai media e dalle televisioni. Questa città dove, alle grate che chiudevano la zona rossa, gli aquilani avevano attaccato, con un fiocchetto rosso, le chiavi delle loro case non più abitabili. E che ora sono state recuperate e rimosse.

Questa città piena di fermenti culturali, di mostre, di foto d’arte appese ovunque e di teatri all’aperto che accolgono spettacoli e concerti.

Collemaggio, con le spoglie del Papa Santo Celestino Quinto, tornate al loro posto e miracolosamente scampate ai crolli.

San Bernardino, anche lui rincasato da poco in una basilica con un soffitto ligneo decorato a fiori in oro, bello da levare il fiato.

E il Teatro Comunale, che grazie a una canzone scritta a più mani e cantata a mille voci, fra poco riapre.

E che dire della chiesa di Santa Maria del Suffragio, ovvero delle Anime Sante, edificata agli inizi del ‘700 come tempio per le vittime del terremoto del 1703 e mortificata dal crollo della cupola avvenuto quasi in diretta tv? Anche lei è stata restaurata e accoglie cori, concerti e mostre che rendono ancora più suggestiva la visita.

E il giardino comunale, pieno di sacchi neri dell’immondizia, che raccoglievano cosa ancora si poteva recuperare dalle case, come foto, documenti e altro, adesso sgombro, con i fiori e le aiuole colorate. Quasi nessuno è tornato a cercare le proprie cose, perché non ha potuto, o non ha voluto più voltarsi indietro.

Niente più anime che vagano fra le macerie, ma solo ragazzi e ragazze che cercano di godersi la vita, passeggiando in corso Vittorio Emanuele ancora privo di negozi, fra palazzi restaurati ma attualmente vuoti e palizzate che proteggono lavori inarrestabili. “La vedi quella bottega? – (In realtà solo una vetrina murata dai detriti) – Ecco, lì c’era una libreria, e una nostra amica aveva riaperto la sua pizzeria, proprio qua, ma poi ha dovuto ritornare in periferia perché i lavori la stavano soffocando”.

L’unico posto che mi ha turbato è stato un edificio che ospitava l’ospedale psichiatrico in cui era possibile accedere da un portoncino lasciato aperto. C’erano ancora i letti nelle stanzette con le serrature rinforzate. E le grandi camerate per la mensa, i bagni, le docce, i locali per le visite. Integralmente attraversato da crepe e con i calcinacci in ogni angolo. Il tutto immerso in un parco meraviglioso con le finestre che davano sulla basilica di Collemaggio. Molto inquietante.

In via Venti Settembre ho cercato la Casa dello Studente (lo Studentato, come lo chiamano i ragazzi) ma al suo posto non c’è più nemmeno quell’ala che aveva resistito allo scossone delle 3.32. Solo una grande voragine, mentre la costruzione che ospitava le suore, accanto, è finalmente ricostruita. Quando l’avevo vista sembrava una grande casa delle bambole. Tutte le stanze che davano sulla facciata mancavano della parete che le riparava dagli sguardi indiscreti. Potevi vedere i letti, gli armadi, i bagni con i necessaire sulla mensola davanti lo specchio sul lavandino…

Era rimasta intatta, in un equilibrio governato da un filo invisibile, un’enorme statua della Madonna, in gesso bianco, su un angolo della balaustra del grande terrazzo sul retro. E tu la guardavi e ti chiedevi: come ha fatto a non cadere? Ma la mano divina, si sa, è grande.

Siamo ripartiti che Nicola Piovani aveva in programma un suo meraviglioso concerto, proprio a Collemaggio, quel pomeriggio.

 

Dovrò tornare, certamente. Voglio che questa “rinascita” prenda anche me, mi avvolga, come una grande coperta, come quelle fatte a patchwork che avevano caratterizzato le strade del centro dei primi tempi, e mi scaldi il cuore e l’anima.

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