Siamo rimasti 19 nipoti, anzi qualcuno in meno perché se n’è andato e qualche figlio in più. E tutti ci siamo accapigliati per avere in eredità i quaderni di cucina della zia Mimmi.
Sono dei quaderni di normali dimensioni, ma gonfi che sembra debbano esplodere in mille coriandoli di ricette.
Le pagine straripano, scritte con una calligrafia ordinatissima e molto chiara, alternandosi a fogli ritagliati da riviste e ricette battute a macchina da non si sa chi, e incollate con attenzione. Sfogliandoli ritrovo la storia della famiglia, tutta, dal primo all’ultimo, comprese le ultime pietanze, da lei provate a casa mia, e ritrascritte sul suo quaderno con meticolosa precisione.
Così recupero, finalmente, le dosi esatte per le crocché di latte di nonna o per il budino di caffè. Quanto tritato serve per 20 timbaletti di capellini o quali erano i formaggi che si usavano per i gateaux. Ho scoperto che esisteva un piatto di nome ramacchè, cioè dei bignè fritti che poi venivano farciti con salame e formaggio. Mi sono appassionata al bianco mangiare, budino di crema di latte che era gradito da tutti i nipoti e che veniva guarnito con la granella di pistacchio, ho trovato la ricetta del centofoglie, antesignana della lasagna emiliana ma made in Palermo.
Accanto a ogni ricetta c’è, fra parentesi, il nome di chi gliela aveva data, e, spesso, anche doppie dosi e doppia spiegazione se erano due le persone che cucinavano lo stesso piatto ma in modo diverso.
Con la zia Mimmi e lo zio Gaetano viveva Giovannino, fedele compagno della loro esistenza. Lavorò da loro 55 anni, in cui vide nascere e crescere tutti i nipoti e i pronipoti. Lo consideravamo come uno zio. Faceva tutto e di più. Sbrigava i lavori a casa, li accudiva, li accompagnava in auto ovunque. Si sobbarcava mesi di vita in campagna, sulle Madonie, dove lo zio aveva la sua azienda agricola. Ma, soprattutto, cucinava.
Eseguiva gli “ordini” della zia e assecondava i loro gusti.
Impossibile mangiare la pasta col pomodoro a casa Pottino perché il sugo era melassa. Zuccherato ai limiti della crisi diabetica perché allo zio Gaetano piaceva così.
In campagna si consumavano solo i prodotti dell’azienda.
Il pane, fatto una volta la settimana, il venerdì era già immangiabile, ma, tostandolo, e col miele sopra, potevi farci una buona merenda. L’uva, abbastanza aspra, era piena di insetti, ma i pistacchi, nei grandi sacchi di iuta, erano squisiti. Così come ottimi erano i formaggi mentre imbevibile era il vino.
La zia, poi, era patita per i cibi in miniatura. Le patate fritte della carne erano piccolissime, i tocchetti di melanzane della caponata microscopici. Giovannino lo sapeva e cucinava come loro gradivano, ma, almeno due volte l’anno, c’era l’invito a colazione per mangiare la brioche, tirata a mano, con grande fatica. Non c’erano altri elettrodomestici come impastatrici, planetarie o frullatori a immersione nella grande cucina, e qualcuno dei frullini regalati da noi nipoti, lo abbiamo ritrovato conservato ancora nel suo imballo. Veniva farcita con straccetti di pollo, besciamelle, pisellini, prosciutto e formaggi. Usciva dal forno morbida e dorata e appena entravi in casa il suo odore ti avvolgeva, attirandoti, come immagini doveva fare il canto delle sirene con Ulisse. Suadente profumo che veniva dal vecchio forno a gas, efficientissimo quando serviva.
Poi si andava a tavola, con molta formalità, e Giovannino sempre presente alle tue spalle. Ho sempre bevuto come un cammello ma, a casa Pottino la caraffa d’acqua non stava sulla tavola. Era su una delle credenze della sala da pranzo, e dovevi occhieggiare al cameriere affinché lui te la versasse. Una sofferenza, compensata, però, dall’ottimo cibo.
Dopo mangiato la zia, anche centenaria, si fumava una sigaretta. Una soltanto, in tutta la giornata, ma con voluttà e un’espressione compiaciuta, come la dovevano avere le ragazzine di buona famiglia quando si nascondevano a fumare, tutte insieme, nascoste nella stanza da letto.
Visse a Villa Pottino per sessant’anni, con quello che fu l’unico amore della sua vita. Lo amò dal primo momento che lo aveva incontrato, ma lui era abbastanza restio a rinunciare alla sua vita da ricco e nobile scapolone. Era, nell’ordine, un ingegnere collaudatore di aerei, un agronomo, un chimico e un laureato in legge. Quando la zia lo conobbe viveva fra Roma e Palermo occupandosi di aerei, quindi, avendo ereditato l’azienda agricola, con il feudo intero, dalla famiglia, si laureò in Agraria per poterla meglio condurre e anche perché contributi e agevolazioni venivano date solo se il proprietario era anche Agronomo.
Mio padre, che a quei tempi frequentava la famiglia, era molto contrariato nel vedere questa donna, così volitiva, piena di risorse, che lavorava per aiutare la famiglia e sapeva far di tutto, che moriva, sfiorendo, dietro quest’uomo. Così cominciò a presentarle amici papabili. Fra questi un importante dirigente dell’Eiar che se ne innamorò subito. Tante sono le foto fatte con il dott. Sammartino di gite in auto a Mongerbino, al Teatro Massimo e in giro per la città. Tutto questo arrivò, naturalmente, alle orecchie dello zio Gaetano che, sulla soglia dei 50 lui e dei 40 lei, decise di chiedere la sua mano alla nonna.
Lui morì trent’anni prima di lei che, arrivata alla soglia dei cento, si chiuse in casa per non essere festeggiata. E alle mie rimostranze, visto che le volevo organizzare una grande festa coi parenti, rispose: “Non si festeggia perché PORTA MALE”. Restai basita, e, chiedendole perché mai, rispose: “Alcune mie amiche che li hanno festeggiati poi sono morte”…non ci fu verso di convincerla che forsesarebbero morte ugualmente, anche senza festeggiamento!
Rimase il fulcro della vita della famiglia fino all’ultimo. E, al funerale di mia madre, più giovane di lei di vent’anni, mi disse sconsolata: “Ma ti pare giusto che io, che sono la più grande, debba seppellire le mie sorelle piccole?”
Piacevolissimo racconto di un’epoca felice
Grazie, detto da te è un supercomplimento!